venerdì 28 settembre 2007

I Karen pronti alla battaglia

tratto da www.noreporter.org - inserito da Pedro
L'associazione Popoli, nel silenzio dei media, da anni combatte il regime militare Birmano sostenendo la causa dei Karen, un popolo oppresso e trucidato a cui nessun Magdi Allam ha mai badato. Alla luce dei recenti eventi e dell'enorme clamore mediatico, c'è da chiedersi cosa può esserci di positivo per i Karen nell'ottica di un eventuale cambio di regime. Gli interessi in gioco (economici e geopolitici) sono enormi, e sappiamo bene come le oligarchie finanziarie non abbiano mai avuto difficoltà a collaborare o sostenere qualsiasi tipo di regime. L'interesse all'autodeterminazione dei Karen avrà importanza per le anime belle che oggi si stracciano le vesti?
L'intervento di "Popoli" sulla questione Birmana:
Il mondo si accorge che esiste la Birmania. Uno dei meriti della protesta sacrosanta dei monaci della capitale e delle principali città del Myanmar è innanzitutto questo. L’attenzione del mondo si concentra su questo angolo del sud est asiatico, scosso dalla più imponente manifestazione degli ultimi venti anni. E per tutti gli attori, diventa così più difficile agire senza dare nell’occhio, senza scatenare reazioni nelle coscienze delle “pubbliche opinioni” delle nazioni democratiche.Fare pronostici su chi vincerà questo pericoloso braccio di ferro (i rigorosi monaci interpreti dell’esasperazione di un intero popolo o i paranoici gerontocrati in stellette rinchiusi nella finta capitale Naypidaw) è difficile.
C’è chi sostiene che vinceranno i generali, soffocando la rivolta nel sangue, nella repressione di cui sono maestri, o semplicemente facendo valere il peso delle minacce nei confronti di gente che conosce la brutalità e la capillare efficienza della macchina poliziesca del regime. C’è chi è invece certo della vittoria dei manifestanti, forti appunto di una solidarietà ideale del resto del mondo e dello spettro di nuove sanzioni economiche prospettate dall’Occidente al regime.
“Popoli” guarda con attenzione all’evolversi della situazione. E’ normale che chi si occupa da qualche anno di portare aiuti umanitari ad una etnia perseguitata dalla giunta militare speri che l’aggressore venga indebolito, messo in crisi, ridimensionato dalla dissidenza interna. A “Popoli” interessa innanzitutto la sicurezza e la libertà per i Karen, che in questo momento sono ancora negate dai generali birmani.
Ma siamo consci del fatto che questa sfida, chiunque ne sia il vincitore, porterà probabilmente nuovi drammi per le orgogliose genti delle colline dell’est.
Personalmente, e forse troppo ottimisticamente, ho la sensazione che il regime abbia il tempo contato. Ci sono due motivi per cui mi lascio andare a tale speranza (conscio però di poter essere smentito nelle prossime ore da qualche decisione forsennata dei vecchi di Naypidaw). Il primo è l’atteggiamento dell’esercito in questa fase della protesta. Straordinariamente pacato negli interventi. Cinque, dieci morti, forse venti e qualche centinaio di arresti dopo diversi giorni di agitazioni sono un bilancio incredibile, in un paese in cui quotidianamente le forze armate investono i villaggi dell’est incendiando, stuprando e uccidendo.
La grande manifestazione del 1988, alla quale parteciparono soprattutto studenti universitari e lavoratori di Rangoon, venne stroncata immediatamente dai fucili dei soldati: allora non si sparò in aria per disperdere i manifestanti. Si mirò alle teste dei birmani che osavano chiedere maggiore libertà. Diverse centinaia di vittime, c’è chi parla addirittura di 3000 morti. L’ odierna cautela dell’esercito potrebbe essere il prezzo pattuito per un passaggio di potere che risulti indolore per i vecchi generali.
L’altro elemento che mi fa sperare in un non lontano cambiamento ai vertici dello stato è la presa di posizione della Cina, principale e indispensabile angelo custode della giunta militare.
Pechino ha auspicato una ragionevole soluzione della crisi, invitando di fatto il governo di Rangoon ad evitare eccessive violenze. Non credo che la raccomandazione sia scaturita dal fastidio della leadership cinese per la vista del sangue (chiedete ai tibetani o ai dissidenti interni), quanto dalla considerazione che la Birmania, rappresentando un buon partner commerciale e un alleato strategico importante, va resa “presentabile” agli occhi delle altre potenze, USA in testa, con cui Pechino ha interesse a dialogare. Non va scordato che le Olimpiadi sono alle porte, e che l’ormai capitalista Cina cura molto il “look”.
Il business, credo, vincerà la sfida. India, Cina, Tailandia, Singapore, Israele, più alcune importanti multinazionali occidentali hanno grandi interessi nel “paese delle mille pagode”.
Il rischio di incontrare ostacoli di carattere diplomatico, problemi di immagine e legali (sanzioni) è forte, d’ora in avanti. Prima della marcia dei monaci tutti facevano quel che volevano, all’ombra del potente “Tatmadaw”, l’esercito birmano.
La Unocal (l’azienda californiana amica dei Talebani durante la guerra che le milizie filo pachistane, foraggiate dal Dipartimento di Stato USA, conducevano contro il comandante Massoud) è da molti anni socia dei generali birmani. Il gasdotto di Yadana, costruito in partnership con la Total, attraversa territori “ripuliti” dalla presenza dei legittimi abitanti (Karen e altre etnie) grazie a violente azioni dei soldati di Rangoon.
Israele da circa venti anni vende armi e “servizi” a esercito e sbirri birmani: si vede che la solidarietà, tra massacratori di popoli originari, è d’obbligo.
New Delhi sta riempiendo gli arsenali del Myanmar in cambio del gas birmano, di cui la frenetica economia indiana ha estremo bisogno.
Singapore ha stipato le sue banche di narcodollari provenienti dalle tasche dei trafficanti birmani e dei loro protettori in divisa. E la Tailandia (fedele alleato degli Stati Uniti) firma con Rangoon accordi milionari per costruire dighe e impianti idroelettrici sui fiumi che attraversano le terre dei Karen, destinate ad essere sommerse dalle acque.
Non è escluso quindi che tutte le componenti della ambigua economia birmana premano sul governo perché questo inizi a considerare la possibilità di un negoziato con le forze democratiche. Per evitare danni alle loro redditizie imprese. E per continuare, in regime liberale, a rapinare le ricchezze del Myanmar, questa volta con altri complici.
Infatti, i monaci stanno forse porgendo (più o meno inconsciamente) su di un piatto d’argento il Paese alle fameliche oligarchie britanniche, statunitensi e apolidi. C’è un forte legame che unisce la principale figura della dissidenza, Aung San Suu Kyi, alla Gran Bretagna. I circoli influenti, quelli della “esportazione della democrazia” a tutti i costi, sono particolarmente eccitati, in queste ore.
E anche questo ci piace poco. Non ci pare infatti che le democrazie occidentali siano istituzioni particolarmente attente alle istanze fondamentali dei popoli che desiderano vivere preservando la propria specificità culturale.
Se la piazza dovesse vincere, se il regime si dichiarasse disponibile a trattare con l’opposizione, se si preparasse un graduale cambiamento degli assetti politici, probabilmente nel giro di alcuni mesi verrebbe disegnata una “road map” verso la democrazia. Immaginiamo folle di “esperti” occidentali indaffarati a ristrutturare il sistema giudiziario, legislativo, economico del Paese. Sarebbero molto probabilmente ex dipendenti della Unocal e della Total, ex funzionari dell’antidroga statunitense impiegati per molti anni in Birmania in finte campagne di distruzione dell’oppio. O magari vecchi importatori svizzeri di rubini color “sangue di piccione”.
Cosa succederebbe ai Karen in cerca di autonomia ? Verrebbero forse bloccati i progetti milionari che violentano la loro terra ? Verrebbero forse chiuse le fabbriche di eroina e di anfetamine contro le quali si sono così coraggiosamente battuti per tanti anni ? Verrebbe riconosciuto loro il diritto di chiamarsi “nazione” ?
Temo che se dovessero continuare ad avanzare le loro legittime rivendicazioni, rifiutandosi magari di deporre le armi, da “combattenti della libertà”, come vengono ora definiti poiché si oppongono ad una dittatura, diventerebbero, per il baraccone mediatico internazionale governato dai soliti sovrani senza patria ne’ etica, dei “signori della guerra”, ovvero elementi terroristici che incomprensibilmente rifiutano le allettanti promesse della democrazia. Autodeterminazione, identità, tradizione: cosa sono per i freddi burocrati del parlamentarismo d’assalto ?
Ma lasciamo la dimensione dei pronostici fantasiosi e torniamo ad oggi.
I Karen, dimostrando ancora una volta una indole saggia e poco incline allo sciacallaggio, sono fermi, nella giungla, in attesa dello sviluppo della situazione. Agire subito con le armi avrebbe significato provocare i generali, costringere il regime ad una risposta violenta, avrebbe esposto i manifestanti al rischio di un bagno di sangue. Hanno invece fatto sapere che sono pronti (l’ordine è già arrivato ai comandanti operativi del KNLA), assieme alle truppe di altri gruppi etnici, a scatenare una grande offensiva contro il Tatmadaw in caso di repressione violenta della protesta dei monaci, nelle prossime ore.
Non resta, per il momento, che attendere. Da parte nostra auspicando intanto la fine di una casta di macellai, trafficanti di droga, avidi affaristi senza scrupoli che ha affamato il suo popolo. La democrazia non c’entra. Vi sono stati nella storia regimi non democratici che hanno goduto del reale consenso popolare. Che hanno creato stati etici. Che hanno messo al primo posto il bene della nazione. Che hanno sfidato e combattuto le oligarchie criminali. Non è certo il caso della giunta birmana. Ne’ delle nazioni che in queste ore alla giunta stanno facendo la ramanzina, fingendo di non vedere quanto in fondo le assomiglino.
Quel che verrà poi, è un’altra pagina di storia. Che “Popoli” spera verrà scritta dai Karen con lo stesso rigore, la stessa onestà e chiarezza di ideali che hanno accompagnato durante gli ultimi sessant’anni la loro lotta per la libertà.
Franco Nerozzi (Popoli)

giovedì 27 settembre 2007

A casa Soru!

Sabato 6 ottobre Alleanza Nazionale e Azione Giovani marceranno sul Consiglio Regionale per “invitare” Soru ad andarsene a casa, subito. L’appuntamento è per le ore 8,45 in Piazza Repubblica, da dove partirà il corteo diretto al Consiglio Regionale; terminato il corteo si terrà, all’Hotel Mediterraneo, l’assemblea regionale di Alleanza Nazionale durante la quale i quadri del partito discuteranno della linea politica di An in Regione, del programma elettorale per le prossime elezioni regionali e delle modalità attraverso le quali giungere alla designazione del candidato presidente della Regione. Caro Soru, stiamo arrivando! E non è che l’inizio… “Per le vie e per le strade, per le piazze e per i campi, un rumore sta crescendo, un clamore sta aumentando…” RIVOLTA!

mercoledì 26 settembre 2007

Autarchia, socialismo, nazionalismo. Intervista a Hugo Chavez

Tratto da www.noreporter.org, inserito da Pedro
Da notare come per il giornalista di Repubblica il controllo del Governo sulla Banca Centrale sia un male per la democrazia. Evidentemente la sovranità monetaria del popolo è contro la democrazia. Ma "democrazia" non è il governo (e quindi "sovranità") del popolo?
Quando "destra" e "sinistra" non hanno più senso.

MARACAIBO - "Spari la sua prima domanda". Hugo Chavez Frias, il presidente, il caudillo, il dittatore, l'ex colonnello dei parà, il nuovo Simon Bolivar del Venezuela o più direttamente il Comandante, come ama invocarlo lo stuolo di camicie rosse assiepate sotto questo enorme tendone bianco, abbassa gli occhi, si stringe nelle spalle, si contrae come si preparasse davvero a ricevere una fucilata. Il presidente del Venezuela non ama farsi intervistare. Ama semmai far pesare la propria assenza. Come quando annuncia che ha deciso di disertare, unico capo di Stato, l'assemblea generale delle Nazioni Unite: "Ho troppi impegni qui fra la mia gente, manderò il ministro degli esteri". Il ministro leggerà in suo nome a New York un durissimo discorso anti Bush, lui invece resta qui in questa pianura, arsa da una temperatura che sfiora i 50 gradi. Davanti a ministri, ambasciatori, osservatori, e cento tra operai, impiegati, dirigenti della "Pequiven", la più grande industria petrolchimica del paese. Presidente, gran parte del mondo si chiede il senso della nuova riforma della Costituzione. Essa prevede, tra l'altro, la sua rielezione a tempo indeterminato, il controllo da parte del governo della Banca centrale, forti limiti alla libertà di stampa. Sono cambi che alterano la democrazia. "Lo spiego da due anni, lo spiegherò ancora. La nostra Costituzione compie 8 anni. E' una buona Magna Carta. Sicuramente migliore di quella che ha regolato il paese per 38 anni. Ha fatto compiere enormi progressi alla rivoluzione bolivariana. Ma, come tutte le Costituzioni, ha bisogno di essere riadattata alle esigenze di una società in evoluzione".
Perché la necessità di tante modifiche, così vicine nel tempo? "Prima, ai tempi delle grandi oligarchie, non si sapeva neanche cosa contenesse la Costituzione. Oggi, l'abbiamo spiegata a tutto il paese distribuendo 24 milioni di libretti. E' accessibile a tutti. Il popolo la conosce a memoria, ne parla per strada, la sera in casa, negli uffici, nelle fabbriche, nei piccoli villaggi della giungla. I governi precedenti hanno preferito dividersi il potere, mascherandosi dietro un'apparente alternanza frutto di un accordo fatto a tavolino". Il Venezuela ha avuto momenti di grande sviluppo. E' un paese ricco, c'è il petrolio. "Sì, certo, c'era il petrolio, un ottimo petrolio, e questo bastava a arricchire le tasche dei pochi, a scapito dei tanti. La massa restava chiusa nelle baracche, privata dell'istruzione, analfabeta, slegata da ogni decisione del potere. Era trattata con fastidio, in modo razzista, perché indigena, creola, negra. Erano nati poveri e tali dovevano rimanere. Ho proposto di cambiare la Costituzione, che verrà sottoposta a tre referendum, per rafforzare il potere popolare. Per far trionfare la rivoluzione". L'opposizione grida alla dittatura. Vive con crescente allarme lo stretto legame con Cuba. Non c'è il rischio di un isolamento? "I nostri amici e compagni di Cuba ci hanno aiutato inviando migliaia di medici. Sono arrivati qui insegnare a curare la gente. Hanno tamponato le falle di un sistema sanitario pubblico, mai realizzato dai vecchi regimi più sensibili alle esigenze delle cliniche private, veri templi della chirurgia estetica, che al diritto alla salute. Hanno dato un contributo vitale al popolo venezuelano. Oggi sono tornati a casa, anche se il rapporto con l'Avana rimane intenso e stretto su molti altri settori". Fra due giorni, riceverà qui il presidente iraniano Ahmadinejad. Quali tipi di rapporti avete con Teheran? "Rapporti economici e scientifici. I dirigenti della repubblica islamica dell'Iran sono interessati a studiare il nostro sistema di produzione del polietilene. Ci forniscono la tecnologia. Ma sono sicuro che qualcuno speculerà anche su questa visita. Lo vede quel silos? Servirà ad aumentare l'estrazione del gas e alla sua trasformazione. Ebbene: diranno che si tratta della bomba nucleare, che stiamo complottando con l'Iran per minacciare il mondo". Chi lo dirà, signor presidente? "Lo dirà il Male, quello che regge l'Impero, il Vampiro che protegge gli oligarchi. Non serve fare nomi. Tutti sanno chi è il vero nemico della pace nel mondo". Ma proprio la comunità internazionale resta perplessa davanti alla sua rivoluzione bolivariana. Sembra di essere tornati al passato. "La rivoluzione socialista e bolivariana dà fastidio a molti. E' l'alternativa al neoliberalismo che ha dominato gli ultimi vent'anni. E' la dimostrazione che esiste un'alternativa, più umana, meno crudele. Noi, non vogliamo convincere nessuno. Siamo aperti a tutti. Abbiamo rapporti con Russia, Bielorussia, Cina. Ma anche con Bolivia, Brasile, Argentina. Abbiamo lavorato con Chirac, adesso inizieremo con Sarkozy". E con l'Italia? "Abbiamo fatto delle proposte alla vostra Eni, abbiamo avuto incontri con il governo Berlusconi". Cosa è accaduto? "C'è un paradosso che mi fa male. Riusciamo ad avere scambi e rapporti con governi di destra, che non ci sono certo amici, mentre quelli di sinistra ci evitano e ci guardano con sospetto". Colpa delle menzogne diffuse dai vostri media? "I giornali e le tv del paese mi attaccano ogni giorno. Io non li ho certo chiusi, continuano a pubblicare. Questa è democrazia, non dittatura". Come giudica la revoca delle concessioni a Rctv, la più antica televisione del paese? "Erano scadute. Oggi è ben visibile su altre frequenze. Un presidente deve essere sensibile ai messaggi che passano attraverso il video: assistere a programmi spinti, volgari, non fa parte della nostra cultura. Noi vogliamo la crescita del nostro popolo, non il suo declino". Il presidente si alza, ci precede dentro un grande tendone bianco dove c'è una vera esposizione di oggetti comuni che mostrerà nella sua trasmissione "Alò presidente". Il suo programma, costruito come momento di dialogo con la popolazione. Afferra degli occhiali da lavoro. "Plastica", indica, "Questi oggetti, oggi, sono fatti dalla nostra industria. Possono essere utilizzati nelle campagne, nelle coltivazioni, per i fertilizzanti. Ma anche nelle costruzioni. E che dire della sanità? Siringhe, strumenti, provette, contenitori. Per anni le oligarchie che dominavano il paese li importavano, li compravano a prezzi esorbitanti. Ma questi stessi oggetti potevano essere prodotti in casa. Invece c'era chi preferiva succhiare il petrolio, venderlo sotto costo, e lasciare morire il popolo per una setticemia, ignaro perfino dell'esistenza dei medici". E oggi? "Oggi è il paese intero che decide e programmna". Senza l'opposizione. "L'opposizione ha fatto le sue scelte. E' un dialogo impossibile. Siamo diversi: noi siamo disposti a morire per il paese. In loro cova l'odio, la rabbia per i privilegi che hanno perduto. Non sopportano vedere un indio, un negro, il "mono", la scimmia, che guida il paese". Come pensa di conciliare il suo modello con i mercati internazionali? "E' un dilemma antico, costante. Pianificazione e mercati. L'America Latina è ricca di gas, petrolio e materie prime: abbiamo creato l'Alba, il nuovo mercato comune, per soddisfare le necessità del nostro Continente. Ci riusciremo nel giro di pochi anni.". C'era bisogno di un golpe per prendere il potere? "Il paese era al collasso. Ho evitato un bagno di sangue, mi sono arreso, ho fatto un anno di carcere, sono stato espulso dall'esercito. Ma ho dato una scossa e il paese ha risposto nelle elezioni del 1998. Non ha pagato invece chi ha fatto il golpe nel 2002. L'ex presidente della Confindustria assieme alla Centrale dei sindacati, che tutto era tranne un sindacato dei lavoratori. La nostra Repubblica bolivariana è uscita dalle urne. Una maggioranza schiacciante. E' l'oligarchia che non accetta questa realtà democratica". Quanto pesa il ruolo dei militari nel futuro del Venezuela? "Su questo sono stato chiarissimo. Niente partiti e niente militanza politica per chi indossa una divisa". Paura di un golpe? "Ce ne sono stati tanti, troppi. Oggi il popolo vuole solo vivere in pace e con dignità".

mercoledì 19 settembre 2007

Sarà, ma io mi aspetto solo il colpo di grazia

di Massimo Fini da “Libero” del 4 agosto 2007
Marcello Veneziani scrive che i giovani d’oggi sono dei fannulloni che non hanno più voglia di lavorare. Se così fosse sarebbe un’inversione di tendenza molto interessante e feconda. Vorrebbe dire che ci sono giovani che, pur cercando, per il momento, di acchiapparne quel che possono, non hanno più voglia di sacrificarsi per un modello di sviluppo insensato che io ho definito “paranoico”. E non è certamente un caso che il pubblico che legge i miei libri, che non è poco (“Il vizio oscuro dell’Occidente” ha venduto più di 200 mila copie) sia formato, in prevalenza, da giovani (18-35 anni) e che a teatro, quando ho dato “Cyrano se vi pare…”, ci fossero soprattutto giovani.Il mito del lavoro nasce infatti con la Rivoluzione industriale razionalizzata dall’Illuminismo nelle sue due declinazioni: liberale e marxista. Ed è presente in entrambe le ideologie: per Marx il lavoro è “l’essenza del valore” (non per nulla Stakanov diverrà un eroe dell’Unione Sovietica), per i liberal-liberisti è esattamente quel fattore che, combinandosi col capitale, dà il famoso “plusvalore”. Prima il lavoro non era mai stato un valore ma, come diceva San Paolo, “uno spiacevole sudore della fronte”. Tanto è vero che è nobile chi non lavora e contadini e artigiani lavorano solo per quanto gli basta. Il resto è vita.In contrapposizione ai “fannulloni” di oggi Veneziani ricorda le durissime fatiche fisiche, il “gettar sangue” (ma anche le sudate soddisfazioni) dei contadini della sua terra, la Puglia, e “l’orrore e il terrore per la miseria”.Ma il mondo contadino, che Veneziani ha visto da ragazzo, e che racconta così bene, ha poco a che vedere col mondo contadino dell’era preindustriale. Perché non è che un’enclave derelitta del mondo industriale che lo circonda, lo aggredisce, lo depaupera. Certo “la terra è bassa” come dicono i contadini. Lo è oggi e lo era ancor di più quando le macchine agricole non esistevano. E il sole picchiava spietatamente allora come ora. Ma non c’era alcun “terrore della miseria”. Perché la miseria non c’era. Alexis de Tocqueville, uno dei padri del pensiero liberal-democratico, di cui Gianfranco Morra è uno degli infiniti epigoni, ma che conosceva bene entrambe le esperienze, quella industriale e quella preindustriale, nota, con stupore, come il termine “pauperismo” compaia per la prima volta nell’Inghilterra degli anni ’30 dell’Ottocento, cioè nel Pese più opulento d’Europa impegnato in uno spettacolare sforzo produttivo e imprenditoriale. E constata: “Allorché si percorrono le diverse regioni d’Europa si resta impressionati da uno spettacolo veramente strano e apparentemente inspiegabile. I paesi reputati come i più miserabili sono quelli dove in realtà si conta il minor numero di indigenti, mentre tra le nazioni che tutti ammirano per la loro opulenza una parte della popolazione è costretta per vivere a ricorrere all’elemosina”. (A. de Tocqueville, “Il Pauperismo”).In Inghilterra – sono sempre notazioni di Tocqueville – un sesto della popolazione è povera, in Spagna e Portogallo, ancora all’inizio dell’industrializzazione, c’è un povero ogni venticinque abitanti e nella Creuse, la regione meno industrializzata della Francia, “ci si limita a un indigente ogni cinquantotto abitanti”.Ma anche la Spagna, il Portogallo, la Creuse di quegli anni sono comunque già attaccati e intaccati dall’industrialismo. Nell’Europa preindustriale, la cui popolazione era composta al 90 per cento da contadini e artigiani, i mendichi era l’un per cento e, in genere, era mendico chi voleva esserlo (erano i “borderline”, i disadattati del tempo).
Quando in Europa ognuno viveva del suo
Come si spiega questo paradosso? Col fatto che ogni famiglia viveva sul suo (una metà nelle forme della proprietà, l’altra in quella di un possesso talmente illimitato nel tempo da corrispondere alla proprietà) e del suo. Scrive lo storico Giuseppe Felloni, autore di un manuale per le Università, e quindi del tutto ortodosso, “Storia economica dal Medioevo all’età contemporanea”: “In campagna le terre sono distribuite con criteri che antepongono l’equità distributiva all’efficienza economica, mentre quelle per loro natura inadattate alla coltivazione (boschi, pascoli, paludi, eccetera) sono usate promiscuamente da tutti, ma entro limiti ben precisi… le terre… per consentire il libero accesso di quanti usufruiscono degli usi civici (vale a dire delle numerose servitù, di spigolatura, di pascolo, di acquatico, di legnatico, e via dicendo, che gravano sulla proprietà e sul possesso privati, ndr) devono essere lasciate aperte, senza barriere confinarie”. È il regime feudale delle “terre aperte” (open fields), un punto di equilibrio, sofisticato e complesso, che potremmo meglio definire come “com’unitarismo”, dove ogni famiglia deve avere il suo spazio vitale. E lo stesso criterio vale nel mondo artigiano dove è assolutamente proibita la concorrenza, per due secoli di Tudor e gli Stuart si opposero ai grandi proprietari terrieri che volevano recintare i loro campi, ma poi con la rivoluzione parlamentare di Cromwell, preludio della democrazia (e quel Parlamento era zeppo di grandi agrari, di grandi mercanti, di banchieri), si ruppero gli argini e si permise a costoro di recintare i campi (enclosures), il che consentì sicuramente di aumentare la produttività ma buttò milioni di contadini alla fame pronti a servire da carne da macello per le fabbriche dell’incipiente industrializzazione. Ed è in questo periodo che compaiono i braccianti, quelli ricordati da Veneziani, cioè contadini il cui campo, per il venir meno delle servitù comunitarie, non è più sufficiente a sostentarli e sono costretti ad andare a lavorare, a paga, su quelli altrui.
Aumenta la vita, cresce la paura
Il mondo economico feudale non si basava sulla “competizione” ma sulla “cooperazione”. Sembrerebbe un sistema ragionevole, umano. Ma non era razionale. Non era particolarmente efficiente. E lo abbiamo abbattuto. Privilegiando la concorrenza e la competizione spietata che, al loro estremo limite, ci hanno portato alla globalizzazione, che esaspera le disuguaglianze nel Primo e nel Terzo mondo, e fra questi due mondi, e soprattutto, acuisce gli stress, le nevrosi, le depressioni, le sofferenze psicologiche del vivere moderno. Certo noi non fatichiamo più come un tempo, ma poi andiamo a fare jogging, sudando, da soli, senza un perché. Se ci sono giovani “fannulloni” che non vogliono più stare a questo gioco, rovinoso e turpe, ben vengano. Borgonovo e anche Morra gettano sul piatto il pezzo forte della modernità: l’allungamento della vita. Qui bisogna fare almeno una precisazione. Tutta la comunità scientifica e medica ci fa credere, non innocentemente, che gli uomini dell’età preindustriale vivessero trent’anni o poco più. Ma questa è la “vita media” che non ha nulla a che fare con quella reale perché sconta l’altissima mortalità natale e perinatale che lasciava in vita i più robusti. Il confronto corretto va fatto con “l’aspettativa di vita” dell’adulto. Senza addentrarci in complesse indagini statistiche di cui abbiamo dato con ne “La Ragione aveva Torto?”, cui rimandiamo, si può dire che l’aspettativa di vita dell’uomo preindustriale era di circa settant’anni. Anche padre Dante in pieno Medioevo fissa il “mezzo del cammin di nostra vita” a trentacinque anni. E un paio di millenni prima il salmista della Bibbia dice: “Settanta sono gli anni dell’uomo”. Sull’aspettativa di vita abbiamo quindi guadagnato una decina d’anni. Ma poichè, nonostante tutte le nostre autoillusioni, la vecchiaia comincia come allora a sessant’anni (questo è il termine fissato, per esempio, dai Romani) come sa chiunque abbia compiuto questo fatidico compleanno, ciò significa che abbia semplicemente raddoppiato il tempo da vivere in questa età atroce (“atra secectus” la chiamavano i Latini che erano meno retorici e più realisti di noi che crediamo di poter sostituire le parole – “la terza età” – alle cose). Ma lasciamo pur perdere un discorso che sarebbe troppo lungo. Borgonovo dice che la medicina moderna, tecnologica, ha consentito di salvare molte vite, altrimenti inesorabilmente compromesse, compresa la sua. E questo è incontestabile. Ma per una vita che salva questa medicina miracolistica en fa morire mille altre. Di paura. La medicina tecnologica, con i suoi interventi eccezionali, ci ha completamente disabituati a confrontarci con quello che i filosofi, quando esistevano ancora, hanno chiamato “i nuclei tragici dell’esistenza”: il dolore, la vecchiaia, la morte. Nella nostra società la morte – quella biologica è inevitabile, intendo, quella violenta possiamo sempre sperare di scapolarla – è stata rimossa. Interdetta. Proibita. Dichiarata pornografica. La morte è il grande vizio dell’era tecnologica, quello che davvero “non osa dire il suo nome”, altro che la pederastia di vittoriana memoria. Tanto che non osiamo nominarla nemmeno là dove parrebbe inevitabile (nei necrologi c’è scritto di tutto tranne “è morto”). Ma tutte queste rimozioni, divieti, verboten, precauzioni, prevenzioni, autopalpazioni, autoauscultazioni, sei esami clinici l’anno, vogliono dire una cosa sola: una paura della morte, quale nessuna società del passato ha conosciuto in questa misura. E, come diceva il vecchio e saggio Epicuro, “muore mille volte chi ha paura della morte”. Se quindi la medicina tecnologica può essere positiva nei singoli casi, nel complesso è negativa perché ci fa vivere male, tutti, quando siamo ancora sani.Morra mi bolla come un revenant del Sessantotto, un tardo seguace della sinistra pur critica (Adorno, Marcuse), un “rivoluzionario al contrario”, cioè un reazionario. Non capisco come un uomo dell’acutezza intellettuale di Morra possa cadere in simili equivoci. Probabilmente ha letto solo, voglio sperare, i sunti, necessariamente semplificatori, che ho scritto per Libero.Lasciamo pur perdere le storie personali (io al Sessantotto ho partecipato per i primi tre mesi, quelli libertari, me ne sono andato, schifato quando ho visto che si linciava la gente trenta contro uno).Io non sono affatto un reazionario. Sono un antimodernista, che è cosa del tutto diversa. Sconfitti nazismo e fascismo, che erano comunque fenomeni novecenteschi, noi siamo tornati a ragionare esclusivamente con le categorie del liberalismo e del marxismo, e con i loro derivati, che sono di origine settecentesca o del primo Ottocento. Si considerano il top della Modernità. E in effetti lo sono. Solo che in questi due secoli, in cui la storia ha corso a velocità vertiginosa, la Modernità è molto invecchiata. Non è più nient’affatto moderna. E i veri reazionari, “le vecchie zitelle”, sono proprio i modernisti che si affidano acriticamente a un modello che ha fatto il suo tempo e che invece considerano, talmudicamente, irreversibile. Sono loro i veri deterministi. Considerarmi un reazionario e nello stesso tempo un pensatore di sinistra, che è per sua natura progressista, è quantomeno una contraddizione in termini. Se la mia critica si appunta oggi sull’industrial-capitalismo è perché il marxismo è morto nel 1989 e solo Berlusconi può credere che esistano ancora dei comunisti in Occidente.
I problemi aperti della tecnologia
Dice bene Morra quando scrive che “ogni società nel corso della Storia risolve alcuni problemi sono nella misura in cui ne fa nascere altri”. Una volta Paolo Rossi, non il calciatore, non il comico, ma il grande filosofo della scienza, mi disse: “La tecnologia nel momento in cui risolve un problema ne apre altri dieci, sempre più difficili e che non è detto che, alla lunga, riesca a risolvere”. La tecnologia si pone oggi come un vertiginoso moltiplicatore di irresolubili in cui stiamo naufragando tutti. Ma, a parte questo, è evidente che un modello che si basa sulle crescite esponenziali, che esistono in matematica, non in natura, il giorno che non potrà più espandersi, né verticalmente, producendo oggetti sempre più inutili, né orizzontalmente, conquistando nuovi mercati, imploderà su se stesso. Questo Morra lo sa come tutti i Morra della Terra. Ma preferiscono tapparsi gli occhi e le orecchie, come le scimmiotte dell’apologo. Questi stanno tagliando il ramo su cui sono seduti. Se fossi un altro albero – poiché non sono buono – riderei a crepapelle. Ma poiché sono sullo stesso ramo urlo. E, con buona pace di Morra, in Italia sono il solo a farlo o quasi (in Francia ci sono Latouche, De Benoist e altri, negli Stati Uniti si sono le correnti di pensiero del bioregionalismo e del comunitarismo, nel nord Europa l’ambientalismo radicale scandinavo che non ha nulla che vedere con i nostri Verdi).E non sono per un ritorno al passato che, come sempre si dice, non si può mai ripetere nelle stesse forme. Sono piuttosto per recuperare alcuni suggerimenti che ci vengono da passato per andare oltre il presente. E non mi riferisco al tanto strombazzato filone giudiaco-cristiano che, con la sua idea di progresso lineare, ci ha portato, attraverso varie mutazioni e completamente desacralizzandosi, al punto in cui siamo. Ma al pensiero greco, che pur è all’origine della nostra civiltà, che aveva fortissimo, il senso del limite. Molti miti greci battono su questo punto e sul Tempio di Delfi stava scritto “Mai niente di troppo”. Ecco noi, in Occidente, col nostro delirio di onnipotenza, abbiamo proprio perso il senso del limite. So bene che l’uomo è natura e cultura, che questa è la cifra che ci distingue dagli altri esseri viventi. Ma la componente culturale, artefatta, artificiale, virtuale ha preso dimensioni enormi, tali da schiacciare quasi completamente quella naturale e istintuale. Ed è uno dei motivi, non ultimo, per cui viviamo male. Quel che propongo è un riequilibrio fra questi due elementi, entrambi essenziali, della natura umana. Un progetto, come si vede riformista.E non sono io ad avere certezze, tanto meno moralistiche. Sono stati altri a proclamare che l’Occidente è il Bene Assoluto, detentore di valori universali, i suoi, che si chiamano “libertà, democrazia e libera impresa”. Sono stati altri ad affermare che la democrazia, questo sputo che ha appena due secoli di vita, è il fine e la fine della Storia. Non sono io il totalitario. Ma resto un reprobo. Oppure quando si vuole essere gentili, un “provocatore intelligente”, che è un modo elegante per non rispondere alle mie domande. E va bene, continuate pure così. Io sto, da tempo, da un’altra parte.“Corre, corre la “società del benessere”, col suo sole in fronte e le inattaccabili certezze, e, come un toro infuriato, non si rende nemmeno conto, mentre già gronda sangue, che, in ogni caso, al fondo, non più tanto lontano, della strada delle crescite esponenziali l’aspetta la spada del matador” (Il Giorno, “Cause perse”, 21 luglio 1988 ) .
Articolo postato da Pedro

An scende in campo contro il caro-libri: "Controlli della Finanza sui prezzi"

(Unione Sarda) Affidare alla guardia di finanza i controlli sul prezzo dei libri scolastici e scrivere nuove regole per garantire alle famiglie un risparmio sull’acquisto dei testi: è quanto chiedono gli esponenti di An a Governo e Regione per arginare il caro libri. Il coordinatore regionale Mariano Delogu ha annunciato un’interrogazione al ministro dell’Istruzione Giuseppe Fioroni, per sollecitare anche in Sardegna un controllo dei prezzi da parte delle Fiamme gialle, così come avviene in altre regioni. “Viene il sospetto che dove non si facciano gli accertamenti nascano situazioni critiche”, ha spiegato Delogu, richiamando l’attenzione sugli sprechi legati all’acquisto di testi sempre nuovi: “Non si capisce perché i libri del primo figlio non possano essere utilizzati anche dai fratelli”. I consiglieri regionali Antonello Liori e Mario Diana presenteranno una mozione per chiedere alla Giunta di fare in modo che i libri restino in uso nelle classi per almeno cinque anni, e siano eventualmente aggiornati con integrazioni: a questo scopo An invita l’esecutivo a istituire un tavolo che coinvolga editori e rappresentanti della scuola, e ad aumentare i fondi pubblici ai Comuni per il diritto allo studio. “In mancanza di queste garanzie, la Regione può denunciare le case editrici che si comportano scorrettamente”, ha ricordato Liori, che auspica un’intesa bipartisan. Accanto a queste due iniziative anche quella di Azione Studentesca, che ha attivato un mercatino del libro usato in cui chiunque può mettere in vendita i propri testi. La rivendita si trova in Via San Gregorio Magno 7 a Cagliari, aperto tutti i martedì, mercoledì e giovedì. I rappresentanti di Azione Studentesca chiedono l’abolizione dei testi obbligatori, con la possibilità per gli alunni di scegliere il testo da cui studiare. Nicola Perrotti

domenica 16 settembre 2007

Camerata Cecchin presente!

Oggi è l'anniversario della morte di Francesco Cecchin, militante del Fronte della Gioventù, ucciso nel 1979, a soli 17 anni, per mano comunista. La nostra Comunità ha voluto ricordare Francesco e con lui tutti gli altri camerati caduti per l'Idea, con uno striscione ("E' caro agli dei solo il sangue degli eroi. Camerata Cecchin presente") e un presente. Ieri, oggi e domani, noi ricorderemo sempre chi ha sacrificato la propria vita al servizio della nostra causa.